SPECIALE STUPOR MUNDI

Castel Maniace star gate - linea di confine tra il passato e il futuro di Federico II, che è il nostro presente.

L'edificio fatto costruire a Siracusa nell’estrema propaggine di Ortigia tra il 1232 e il 1240 dall’imperatore di Germania e re di Sicilia, Federico II Hoenstaufen, ma noto col nome del protospatario bizantino Maniace, ha subito, com’è noto, le trasformazioni più svariate sin dalla morte del suo artefice avvenuta nel 1250, che ne hanno alterato la strutturazione originaria e ne hanno talvolta cancellato irreparabilmente alcune documentazioni. Il secolo XX, poi, affidandolo all’esercito italiano, aveva marcato le sue pietre delle deturpazioni e aggregazioni murarie tra le più scomposte a causa dell’opera di casermaggio moderna. Grazie al ciclo di restauri operati a più riprese soprattutto a partire dagli anni settanta del secolo scorso, il Castello è stato aperto al pubblico da pochi anni restituendolo alla sua città. Il monumento è un tesoro di inestimabile valore, testimone di una fase storica, quella sveva, della quale forse si rischiava di perdere la memoria. Ci è sempre sembrato più appropriato indicare il castello col nome dell’imperatore, il quale sicuramente dovette intervenire anche nelle fasi di progettazione; egli seguì con puntualità e costanza l’attività di cantiere, come dimostra l’intensa corrispondenza col “direttore dei lavori”, quel praepositus aedificiorum che risponde al nome di Riccardo da Lentini. Nel castello di Siracusa, vi è una coesistenza tra strutture prettamente militari e altre più spiccatamente artistiche (portale, finestra monumentale, sala ipostila, arieti bronzei, elementi scultorei vari), il che costituisce sicuramente novità. In questo edificio, più palacium che castello, sembrano fondersi gli aspetti maggiori della personalità di Federico II: oggi impegnato nelle crociate, domani nella caccia e in problemi di medicina, ancora nella letteratura e nell’arte. Il poderoso muro perimetrale con le torri si presenta come un possente involucro attraverso la cui apertura, il portale, si va alla scoperta di inattese qualità estetiche dell’interno. Interno ove meglio si immaginano muoversi personaggi impegnati in attività di alta rappresentanza, in serate sfarzose o in riti iniziatici, più che in progettazioni militari. Sicuramente la collocazione del castello all’imbocco del porto costituì per Siracusa garanzia e stimolo per una l’espletamento della attività portuali e marinare. Le pietre dell’imperatore legate con tenacissima malta da abili maestranze, con i marchi dei lapicidi su ognuna di essa, venivano avvolte dai giochi d’ombre e di luce creati dalle tante monofore.Le caratteristiche architettoniche essenziali del castello siracusano sono nel complesso riscontrabili in numerose altre costruzioni sveve non solo della Sicilia. Il pensiero va subito alle volte a crociera, alle colonne ed alle semicolonne, ai peducci penduli. Un elemento differenziale, tuttavia, si ritiene di rinvenire in talune particolarità stilistiche, come ad esempio le esclusive decorazioni dei capitelli, e nella imponenza complessiva dell’opera, della quale la grandiosità solenne è forse l’aspetto più significativo. In evidenza deve infine porsi la coesistenza nel Castello, dal punto di vista artistico, di elementi che rivelano il superamento dello stile arabo-normanno e l’adesione al gotico-cistercense, la cui conoscenza Federico dovette acquisire in occasione delle crociate in Oriente, dove lo stile si era diffuso dalla Francia.Esso ci riporta in quel tempo lontano in cui magia e superstizione si abbinavano al sacro, in cui la leggenda camminava di pari passo con la storia. Il nostro “castello” non è un castello: l’involucro sembra quello di un castrum, e neanche troppo: il fossato non c’è; il ponte levatoio neppure. Gli arcieri delle torri non assolvono a questa funzione. Sulla scarpa perimetrale non ci sono tracce d’impatto da proiettili di pietra, né ci sono caditoie per l’olio bollente, non ci sono sotterranei o magazzini, scuderie, né alloggi per le truppe, e tanto meno cucine. La struttura sveva non ha, e non ha mai avuto, quello che un castello dovrebbe avere (e che avrà solo a partire dalla morte di Federico). Ma, allo stesso tempo, non è un palacium, né un viridarium, né un solarium. Federico l’aveva voluto così: con un possente muro perimetrale e torri circolari che, a chi arrivava dal mare o da terra doveva incutere timore e rispetto, ma il cui interno si rivelava straordinario, grandioso e quanto mai singolare.sala ipostila21 Una grande cattedrale! Le navate che si susseguivano uguali, ritmate da colonne identiche, ma i cui capitelli erano ognuno un’opera scultorea diversa, straordinaria, accattivante per perfezione tecnica e per sintassi decorativa. Al centro della sala ipostila, forse un trono sotto un baldacchino composto dalle stesse colonne in marmi e graniti a fascio di tre colonne a supporto della volta a crociera. L’apparato scultoreo dei semicapitelli a parete sino ai capitelli centrali dimostra un crescendo di serpenti che si attorcigliano, scene agresti, testine, animali, grappoli d’uva, elementi floreali...Federico non vide mai il castello finito. Forse egli era cosciente che i suoi impegni in Oriente non gli avrebbero mai permesso di vedere la sua opera ultimata, ma altrettanto cosciente era del fatto che la sua presenza spirituale sarebbe rimasta nei secoli nella nostra città. Il nostro monumento non ha scopo abitativo. Esso infatti è privo di alloggi e forse un secondo piano non è stato mai neppure concepito. La sala ipostila ci suggerisce l’idea di un tempio che condensava i caratteri delle chiese cristiane e delle moschee. Simbolo del potere e dell’autorità. Un tempio alla rovescia con il colonnato all’interno della cella stessa (la sala ipostila), star gate (linea di confine) tra il passato e il futuro del sovrano, che è il nostro presente. Anche se concettualmente può essere paragonato al Castello di Andria o Castel del Monte, l’icnografia del nostro è totalmente diversa. Là ci sono 16 stanze tutte uguali. Qui c’è un’unica stanza apparentemente tutta uguale. Una nuova chiave di lettura del Castello Maniace può essere considerata, a nostro avviso, il Liber de arte venandi cum avibus: forse tra le sue pagine, scritte dall’imperatore stesso, è da ricercarsi la spiegazione a quella serie di strutture architettoniche che non si inquadrano esattamente nella tipologia castrense. La falconeria federiciana supera il concetto di tecnica venatoria e si qualifica come strumento del potere: i falconi dopo il volo e la caccia tornano docili sul pugno dei falconieri, allo stesso modo lo Stato guida i sudditi mediante una legislazione giusta, ma che si rivela inflessibile contro chiunque osi contrastarla. L’architettura federiciana, simbolo del potere del sovrano, anche in sua assenza. Naturalmente poggiato sulla roccia, apparentemente uguale da qualunque lato lo si osservi, condensato di simboli ermetici e numerologici, perfetto nella sua cubica planivolumetria e riccamente, talvolta misteriosamente, decorato nel suo interno, rappresenta il simbolo e la summa dell’ordinamento statale dell’impero; trait d’union tra l’Oriente e l’ Occidente, ove i due diversi modi di pensiero si uniscono e si compenetrano, filtro tra due diverse e lontane culture che nella terra di Ortigia, frequentata senza soluzione di continuità attraverso i millenni, trova il suo naturale sostrato. L’architettura di Castel Maniace, ci trasmette probabilmente un messaggio in codice, idea grandiosa ed accattivante. Chissà che l’edificio di Siracusa non rappresenti la tessera conclusiva di questo grande mosaico federiciano che, dalla terra di Puglia alla terra di Sicilia, in un arco di tempo molto breve (meno di 30 anni), ha messo in opera monumenti unici, generati da un’unica matrice. Le risposte tecniche, storiche, materiali ci saranno date dagli studiosi. Noi, comuni visitatori, affascinati dalla figura del Falco di Svevia (così definito da M. Bordihn), intanto cerchiamo un rifugio incantato nell’eden di pietra da lui realizzato a Siracusa. Isolati dal traffico cittadino, dallo shopping frenetico e dallo stress quotidiano, ci godiamo l’atmosfera magica che Federico ha voluto lasciarci sull’isola della quaglie. Non è stato di Maniace, ma di Federico II, vissuto nel 1200, che figlio del medioevo non fu; di quel re bambino, il quale da grande divenne “l’aquila che anticipava i tempi” e quello stupor mundi che, all’inizio del terzo millennio, fa ancora parlare di sé.

BAGNO DELLA REGINA

Il famoso annalista siracusano Giuseppe Capodieci nella sua opera dal titolo “Monumenti di Siracusa descritti e illustrati” del 1813, ci lascia testimonianza dell’esistenza di un bagno in Ortygia, detto della Regina, che si vede dentro il Castello Maniace (costruito da Federico II di Svevia tra il 1232 e il 1240). “La sua figura è quadrilatera e formato di scelti marmi, ove comodamente possono sedere più persone, ed è tuttavia pieno di acqua. I viaggiatori che lo hanno osservato sono stati di parere di essere un bagno fatto per uso di qualche persona o famiglia rispettabile. Vi si scende per numero 40 gradini: la scala larga palmi cinque, situata allato del primo torrione in entrata il Castello a destra. La vasca ove si prende lo bagno è di palmi cinque di quadro, ed altrettanto profonda. L’acqua sorge in fondo dei lati semi-dolce”. Questa descrizione si adatta perfettamente all’ambiente ipogeico munito di vasca con acqua dolce ubicato sotto Castello Maniace, noto appunto col nome di Bagno della Regina. Vi si accede attraverso una scala, ben conservata e ricavata nello spessore murario del lato sud-ovest in un primo tratto e scavata nella roccia nella parte più profonda. La scala è rettilinea con copertura a volta, realizzata in due rampe divise da un pianerottolo quadrato; 41 i gradini superstiti. La scala riceve la luce dalle feritoie ricavate lungo il muro perimetrale e si interrompeva bruscamente in un ammasso di pietrame di crollo sino agli interventi recenti di restauro. L’asportazione dei detriti ha portato in luce una vasca quadrata rivestita da lastre di marmo di mq 1 c.ca, alimentata da acqua dolce sorgiva, relativa ad una delle tante falde acquifere di Ortigia.Volgendo lo sguardo verso l’alto, è possibile cogliere la luce attraverso un alto e stretto pozzo che si trova sulla verticale della torre ovest del CastellLa scala è in perfetta sintonia strutturale col resto della fabbrica sveva: coeva quindi alla costruzione del castello, essa oggi non ci rivela di quali ambienti fosse a servizio, se non del pozzo. D’altro canto l’importanza dell’approvvigionamento idrico era sentito in maniera particolare da Federico II e curato nei minimi particolari in tutti i suoi castelli. L’acqua della vasca attualmente risulta salmastra e si mantiene sempre allo stesso livello. Qualche perplessità suscita la scelta del marmo quale rivestimento della vasca, che normalmente dovrebbe essere in malta idraulica. L’acqua è elemento fondamentale della natura e della vita, principio di tutte le cose; di conseguenza i bagni, costituivano nella cultura sveva, come già in quella normanna, una “componente essenziale del benessere fisico, del paradiso dei sensi, del luogo di delizie legate all’acqua e alla fontana della giovinezza sempre presente al centro del verziere, del giardino del locus amoenus, dell’hortus conclusus (S. Tramontana). Il Bagno della Regina si configura come uno spazio privilegiato ubicato in un posto dove la regina o il sovrano potevano isolarsi in totale riservatezza e sicurezza dallo spazio sovrastante, in un clima di mistero avvolto nella penombra e che, grazie alle monofore diversamente orientate, riceveva luce solare sufficientemente calibrata. Suscita interesse particolare il fatto che alle ore 12.00 la luce solare che entra dall’ultima monofora colpisce direttamente l’acqua nella vasca creando un effetto di particolare suggestione. Diventa accattivante l’idea che il bagno possa essere legato a riti di purificazione più che a semplici abluzioni “reali”. Ortigia offrì agli occhi dell’imperatore numerose sorgenti d’acqua dolci; oltre la famosa fonte Aretusa che già di per sé nel mito rappresenta la virtù fattasi acqua e le altre esistenti nell’isolotto (come quella di servizio al mikwè – bagno ebraico), egli ebbe a trovare nel sito prescelto per la costruzione del Maniace un’altra falda acquifera d’acqua “buona”, così come nelle credenze medievali si riteneva l’acqua dolce che sgorga dalla terra a differenza di quella della pioggia, scatenata dal demonio.

GLI ARIETI

Vuole la tradizione che sulle due mensole ai lati del portale del Castello Maniace di Siracusa fossero collocati due arieti di bronzo. Le più antiche notizie intorno alle due opere ci vengono fornite dall’Arezzo (XVI secolo) e dal Fazello (XVIII secolo). Il primo riferisce che gli arieti erano al Castello a mare di Palermo ma provenienti dal maiore portu di Siracusa ove era il castrum turris Maniaci. Egli non dice espressamente che fossero al Castello! Il secondo racconta che nel 1448 furono date in premio al capitano Giovanni Ventimiglia per aver trucidato venti nobili accusati di aver fomentato la rivolta dei siracusani contro i governatori spagnoli. Dal suo racconto non si rileva, però, che gli arieti provenissero da Castel Maniace. Gli arieti furono quindi collocati sul prospetto del castello di Castelbuono e, alla morte del Ventimiglia, furono posti sulla sua tomba; dopo varie vicissitudini furono trasportati a Palermo, prima al Palazzo dello Steri, poi nel Palazzo Reale ed infine al Castello a Mare dove il Fazello, ai suoi tempi, poteva ancora ammirarli. Da un documento inedito concesso da L. Genuardi a B. Pace, apprendiamo che nel XVI secolo (durante l’esposizione al Palazzo Reale) gli arieti furono poggiati su due basi marmoree realizzate da Giuliano Mancino. Al tempo di Carlo III, nel 1735, le due opere d’arte furono trasportate a Napoli , per essere quindi nuovamente portate a Palermo nel Palazzo Reale, dove nel 1787 li ammirò J. Houel lasciandoci l’unica raffigurazione di entrambi. Nel 1848 uno dei due animali bronzei, colpito da una cannonata, fu fuso forse per forgiare un cannone; l’altro, danneggiato, fu poi donato da Vittorio Emanuele II al Regio Museo Archeologico di Palermo, dove ancora oggi si trova. L’ariete superstite è rappresentato accovacciato, con la zampa anteriore sinistra sollevata e la testa piegata in avanti. L’orecchio sinistro, la coda e la zampa sinistra posteriore sono stati riattaccati dopo i danneggiamenti subiti nel 1848. Sono presenti alcune integrazioni datate al restauro ottocentesco. L’opera, realizzata con la tecnica della fusione a cera perduta, presenta una patina bruna che crea effetti di chiaroscuro particolarmente accattivanti. Il movimento contenuto e l’espressione dell’animale, la cui testa si volge verso lo spettatore, esprimono un fascino fortemente intrigante. arieti 7 Superata l’errata valutazione storico artistica che li classificava come opera bizantina, la critica d’arte più recente, li ritiene opera greca (IV secolo a. C. o fine del IV inizi del III sec. a. C., di scuola lisippea; datati anche alla fine del I sec. a. C. e agli inizi del I sec. d. C).L’ariete potrebbe rientrare nell’ambito della tradizione bronzistica della Siracusa greca che, come riferisce Pausania, aveva dato i natali a Mikon, il quale realizzò due statue bronzee di Ierone II. I due arieti raffigurati da J.Houel, unico documento che li presenta insieme, poggiano su due basi che, sono probabilmente quelle realizzate dal marmoraro Giuliano Mancino del quale parla Biagio Pace, riportando il documento contenuto nel volume Conti del Segreto di Palermo del trib. Patrimonio, 1510-11, fol. 43:”Pagati a magistero Iuliano de Manchino marmoraro onze 5,15 pro duobus marmoris quos peractavit in rego hospicio, ubi sun depositi duo montoni de brunzo regie curie”. Infatti, da una recente analisi fatta alla parte inferiore dell’ariete superstite, risulta che essa poggiava su una base che riproduceva le asperità del terreno e non su una superficie liscia come rappresentato da Houel.

 

Bibliografia-----------------------------------------------------------------

C. Greco   “L’ariete di bronzo di Siracusa”, in Federico e la Sicilia 1995, 1, pp 419-421

G. Agnello L'Architettura sveva in Sicilia, Roma 1935, pp.57-59 con bibliografia

P.Marconi Note sull'ariete del Museo di Palermo, in "Bollettino d'Arte", X 1930,pp.138-142

C. Rolley Les bronzes grecs, Fribourg 1983,pp 46-48.

N. Bonacasa L'Ellenismo e la tradizione ellenistica, in SiKanie, Milano 1985 pp.282-293

A.Villa in I Greci in OCcidente, Milano 1996, p. 742, n°353

F. Gringeri Pantano, Jean Houel Voyage a Siracusa, Palermo 2003,p.27,figg 74-75

Laura Cassataro "Siracusa sulle tracce del passato", p. 61, Morrone Editore, 2008.

Id. "Siracusa Sveva", Erre Produzioni 2002

Id "Guida del Castello Maniace, Erre Produzioni 2006.

PIANTE

Pianta originaria Pianta con modifice successive