PAOLO ORSI “A SIRACUSA ANDAVA DEBITORE DELLA SUA GLORIA”

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Paolo Orsi nella stanza del Museo che guarda alla Marina intento nei suoi studi e nella qual e andava ancora da pensionato.

Il Museo Archeologico di Siracusa è intitolato ad un personaggio paradigmatico dell’ archeologia, Paolo Orsi. Nativo di Rovereto (1859-1935), vi trascorse la sua gioventù e alla passione per la preistoria, unì quella del vivere all’aperto. Percorrendo a piedi le valli del Trentino si allenò ad una sorta di sport-archeologico potenziando forza fisica e spirito di sacrificio. La laurea in Storia Antica e Archeologia, la Scuola di Archeologia, di Paleontologia, non sono che alcuni dei titoli del suo strepitoso curriculum. Avendo più di 300 pubblicazioni al suo attivo vinse il Premio di Archeologia dell'Accademia dei Lincei. Fu Sovrintendente agli Scavi in Calabria. Ma la sua vita fu segnata dal trasferimento a Siracusa nel 1888 per prendere servizio come Ispettore degli Scavi e dei Musei. Una stanza dell’Hotel Roma, arredata da un tavolo, un letto e due sedie fu il suo rifugio per i 47 anni trascorsi in quella Siracusa alla quale "andava debitore della sua gloria" come egli stesso ebbe a dichiarare. Ma la sua vera casa era il museo, che arricchì con i materiali riportati in luce. Indossando il suo mantello nero e il cappello a falde larghe, sprezzante dei pericoli, non si sottraeva a soste anche di venti giorni, riparandosi nelle grotte, cibandosi di pane duro con cipolla e salame come fece a Pantalica. Accompagnato dal disegnatore Rosario Carta, perlustrò tutto il territorio. Le tombe dei Sicani e dei Siculi, svelavano agli occhi attenti di Orsi nuovi orizzonti, e di quelle culture ne intuì l’origine e lo sviluppo. Le sue ricerche misero in luce reperti di tutte le epoche storiche. Rigoroso nel metodo, puntiglioso nell’inventario e nel restauro, andava annotando tutto nei suoi “Taccuini” e, avendo un grande senso della divulgazione, pubblicò quasi tutte le sue scoperte, pregio questo che non si riscontra nella maggior parte degli archeologi contemporanei. “Non mi sento più in grado di sostenere le fatiche di un tempo. Il medico dice che con un severo regime posso campare fino a 95 anni! Ma toltami la vita della campagna e dell’aria aperta, mi pare di deperire ogni giorno”. Così scriveva Orsi, ormai anziano e malato. E quel giorno di maggio del 1935 sotto la pensilina della Stazione Marittima c’erano tutti, collaboratori e amici: lo aspettavano per salutarlo Rosario Carta, Giuseppe Cultrera, Giuseppe Agnello, Sebastiano Agati e Enrico Arias, il quale malinconicamente lo descrive: “Avanzava a passi lenti, col bastone e le pantofole grandi in cui i piedi che avevano tanto camminato su e giù per il Trentino e la Sicilia e la Calabria non riuscivano quasi a stare più”. Giuseppe d’Amico, il restauratore che lo accompagnerà a Rovereto, riferirà come Orsi andava nominando i luoghi che vedeva dal finestrino del treno per Roma, i luoghi di quella Sicilia che tanto aveva amato e che non avrebbe mai più rivisto.