SIRACUSA EBRAICA - Miqweh, via Alagona.

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Occorre purtroppo rilevare, ancora una volta, l’opera di rimozione storiografica che ha sempre caratterizzato che vicende degli ebrei, come minoranza. Oggi siamo convinti più che mai che le comunità ebraiche siciliane hanno contribuito con la loro specificità in modo non indifferente allo sviluppo delle città della Sicilia medievale

Siracusa, città straordinariamente importante, che racconta la storia millenaria della Sicilia senza soluzione di continuità dalla preistoria sino ad oggi, ha sempre avuto un ruolo di prima donna per il periodo classico, ma grazie a recenti acquisizioni di carattere documentario, archeologico ed epigrafico, si impone anche per periodi storici diversi, come quello genericamente inteso “medievale”. Se in passato studiosi appassionati avevano già evidenziato il suo ruolo primario anche per il periodo cristiano-bizantino, oggi Siracusa può essere definita, nello stesso ambito cronologico, la città della Sicilia seconda solo a Palermo per l’esistenza di una comunità ebraica che, nel medioevo, comprendeva almeno 3000 persone. Storici ed annalisti locali (Capodieci, Privitera…) hanno sempre citato l’esistenza a Siracusa degli ebrei, della sinagoga e di bagni rituali. Tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo, le ricerche archeologiche di Paolo Orsi nell’ambito dei complessi catacombali, degli ipogei nonchè dei coemeteria sub divo oltre a far luce sulle fasi paleocristiane e cristiane evidenziarono l’esistenza di una comunità ebraica coeva. Con ogni probabilità gli ebrei si stanziarono in un primo momento nel quartiere di Akradina presso le grotte Pelopie (da antro- opi e nero – pelos) come si evince dall’ Encomio di San Marciano (VII secolo) identificabili con la balza Akradina. In questo quartiere Orsi studiò gli ipogei ebraici dei Cappuccini e rinvenne numerosi manufatti come lucerne, stele sepolcrali, epigrafi con manifesta simbologia ebraica databili già al III-IV secolo. Nell’ Encomio si racconta anche che San Marciano abitò nelle spelonche “di fronte all’empia sinagoga dei giudei la quale si trova a mezzogiorno delle stesse spelonche verso il mare”; se a questa informazione si aggiunge il rinvenimento del “cimitero degli ebrei” nel sito del porto Piccolo si può ben pensare che esistesse una comunità ebraica in essere in Akradina che nel VII secolo chiese l’autorizzazione a trasferirsi nella città munita, cioè in Ortigia. La sinagoga di Akradina non è mai stata ritrovata, ma se, come normalmente avvenne, dopo il 1492 - data dell’espulsione degli ebrei - i cristiani le trasformarono in chiese, essa potrebbe ricercarsi nell’ambito delle strutture chiesastiche ricadenti tra il quartiere di San Giovanni e quello dei Cappuccini. Lancia di Brolo ritiene che la sinagoga di Akradina venne distrutta durante le incursioni arabe nel 651-652.Come semplice deduzione logica, stando alle parole dell’Encomio, più che nella chiesa di San Giovanni alle Catacombe, come molti studiosi ritengono (ad esempio Caldarella e Gryman), essa sarebbe forse meglio da ricercarsi nell’ambito della missione spagnola dei Cappuccini dal momento che il complesso di San Giovanni è, sin dalle sue origini, legata esclusivamente al cristianesimo e, in modo specifico al culto di San Marciano, protovescovo siracusano. Nessun dubbio, invece, sull’ubicazione del quartiere della Giudecca (chiamato Rabato, cioè sobborgo, rispetto al quartiere del Duomo) in Ortigia: esso si venne ad organizzare lungo la parte orientale dell’isoletta e, fatto assolutamente importante da punto di vista topografico ed urbanistico antico, ricalcò esattamente l’andamento per strigas dell’impianto greco mantenutosi sino ad oggi pressochè inalterato. Grazie ai recenti studi di Angela Scandagliato, Nuccio Mulè e Cesare Colafemmina, oggi si è in grado di ricostruire non solo l’organizzazione urbanistica della Giudecca di Siracusa con le sue varie funzioni religiose ed economico-commerciali comprensive di baglio, ospedale, macello, fornace per la ceramica (scutelleria), trappeto, pescheria, bagni rituali e sinagoga, ma anche la toponomastica che venne però rapidamente cambiata dopo il 1492 (ad esempio l’attuale via del Crocefisso, chiamata così per la collocazione di un crocefisso era la via Davide Sigilmes). Non esiste giudecca senza sinagoga e bagno rituale (miqweh): a Siracusa questo complesso ebraico veniva identificato con la chiesa di San Filippo l’Apostolo. Ma questa chiesa non è mai, purtroppo, stata oggetto di indagini sistematiche archeologiche ed archivistiche; eppure essa si caratterizza per la sua complessità e grandiosità che non si evidenziano solo nel soprasuolo ma anche nel sottosuolo essendo stata edificata sopra un’antica latomia greca che, in epoche successive è diventata oggetto di trasformazioni, aggiunte e riutilizzi (ultimo quello di rifugio antiaereo durante le guerre). Anche questa parte ipogeica (comprensiva di cripta) non è stata mai scientificamente indagata ed era nota solo per la citazione di storici locali come il Logoteta, il Capodieci e il Privitera i quali, indicando l’esistenza di un singolare pozzo, lo identificavano come bagno di purificazione ebraico legato alla sovrastante sinagoga successivamente chiesa di San Filippo l’Apostolo. Questo binomio Sinagoga - chiesa di San Filippo è stata quasi passivamente sempre accettata dagli studiosi (Giansiracusa, Pagnano, C. Voza), da quando Brian de Breffny identificò il pozzo come miqweh (in The sinagoghe, 1978) etc; in ambito cristiano il pozzo si connoterebbe meglio come primitivo battistero). Nel Liber Privilegiorum (Capodieci, Privitera) vi è un regolamento municipale del 1474 che indica l’ordine da seguire nelle processioni dove non viene menzionata la chiesa di San Giovanni Battista, ma viene inserita la chiesa di San Filippo (ovviamente quella con il titolo di Apostolo perchè quella intitolata a Neri è del 1652), attestandone l’esistenza nel XV secolo. Di recente acquisizione (Trigilia) l’informazione tratta da due documenti d’archivio dell’inizio dei lavori di ricostruzione dopo il terremoto del 1693 della chiesa di San Filippo nel 1706 e non nel 1742. Non deve stupire l’esistenza di una chiesa cristiana nell’ambito della Giudecca, anzi , essa si pone insieme alla chiesa di San Francesco e di San Domenico come uno dei baluardi oltre i quali gli ebrei non potevano estendersi nel periodo medievale. La teoria della trasformazione da sinagoga a chiesa di San Filippo è stata smentita in base a due importantissime acquisizioni, una di carattere archeologico e l’altra di carattere documentario. La prima è un’iscrizione ebraica incisa su di un concio collocato nella parte alta dell’abside della chiesa di San Giovanni Battista che non si trova, ovviamente, nella collocazione originaria, ma che venne reimpiegato nella ricostruzione della chiesa dopo il terremoto del 1542. L’epigrafe, edita, trascritta e tradotta da Moshe Ben-Simon così recita: “...alla sinagoga di Siracusa /... fondata con giustizia e fede”. Essa è stata integrata da Cesare Colafemmina dal momento che si presenta mutila nella parte iniziale: “[questo è l’ingresso ] alla sinagoga di Siracusa. [Sia essa costruita e] consolidata nella giustizia e verità”. La seconda è un atto notarile stipulato presso il notaio Vallone del 22 gennaio 1496 di eccezionale valore ai fini della identificazione della sinagoga perché nel testo, relativo ad una contratto di matrimonio, viene detto in forma esplicita che nella dote è inclusa una casa che “si trova nella giudecca, nella ruga chiamata della plaza vecha e precisamente nel vicolo dietro la chiesa de presenti dedicata a S. Giovanni Battista che prima era la meschita dei giudei”. Il Capodieci cita inoltre una Ruga della meschita judeorum: “Meschita era il nome con cui venivano chiamate le sinagoghe siciliane dopo la cacciata dei musulmani nel XII secolo, quando le moschee vere e proprie non esistevano più e molte di esse venivano trasformate in sinagoghe” (D. Cassuto). Nella memoria collettiva dei siracusani era rimasto il ricordo dell’esistenza di una sinagoga che oggi si può con sicurezza far coincidere con la chiesa comunemente detta di San Giovannello, alla quale si collega il miqweh di Casa Bianca (oggi propietà della signora A. Danieli). Probabilmente abbandonato dagli ebrei dopo il 1492, venne scoperto alla fine del XVIII secolo e descritto ad esempio dal Logoteta nel 1786, dal Capodieci nel 1806 e dal Privitera nel 1879. Cadde poi nell’oblio sino alla riscoperta da parte della signora Danieli. Si tratta di un vano ipogeico ricavato nel vivo della roccia a oltre 10 metri di profondità rispetto al suolo di calpestio servita da una scala rettilinea di 52 gradini a 3 rampe con copertura a botte; lungo le pareti del vano scala sono visibili gli incavi ove si collocavano le torce per l’illuminazione. Al termine della scala venne ricavata una vaschetta lavapiedi della misura dell’ultimo gradino di recente messa a nudo: l’acqua che vi affiora proviene dalla stessa falda che alimenta le vasche rituali. La vaschetta rappresenta il primo atto del complesso rituale di purificazione seguito dai frequentatori del bagno. La sala ipogeica è di forma quadrata (m 5 per lato) con volta a crociera supportata da quattro pilastri risparmiati nella roccia che supportano anche le volte a botte che rappresentano la copertura dei corridoi che corrono lungo il perimetro della stanza. Lungo le pareti sono visibili i sedili. La volta a crociera sovrasta per un’altezza di m 2,23 tre vasche disposte a trifoglio, ma il progetto originario prevedeva l’escavazione di una quarta vasca, lavoro che non fu mai portato a compimento per motivi al momento sconosciuti. Sul piano di calpestio, rivestito di cocciopesto, le vasche sono state scavate ad una profondità di c.ca m 1,40 - con una capacità di 250 litri - e sono munite di 6 gradini che facilitavano l’immersione. Altre due vasche precedute da corridoi, furono ricavate forse successivamente in due recessi laterali – ad oriente ed occidente - per garantire un bagno in totale privacy; il lavoro per realizzare un terzo ambiente, venne interrotto perchè fu intercettato un pozzo greco probabilmente ancora in uso. Prossima alla scala una vasca circolare nella quale dall’alto, attraverso un pozzo scavato per la profondità necessaria, gli ebrei potevano calare le stoviglie che, qualora acquistate dai gentili, dovevano essere purificate per immersione. Condizione imprescindibile per un miqweh è che esso “deve essere costruito nel terreno o costituire parte integrante di esso, non può essere un recipiente mobile, nè può contenere acqua trasportata ma solo acqua che fluisce da una sorgente e si raccoglie o acqua di fiume che è a sua volta alimentata da una sorgente, o acqua piovana che deve raccogliersi naturalmente senza attraversare tubi di metallo o altro materiale come creta o legno che potrebbero rendere l’acqua impura, tranne che la conduttura non sia da considerare parte integrante del terreno” (Scandagliato- Mulè). Il nostro bagno risponde perfettamente a tutti questi requisiti essendo stato realizzato ove c’erano preesistenze di carattere idraulico del periodo greco che già attingevano ad una delle tante falde freatiche di Ortigia. Data la perfezione tecnica del manufatto è indubbio che esso nasca da un progetto ben definito e la datazione al periodo bizantino, VII secolo, lo pone tra uno dei più antichi d’Europa. Un’indagine attenta sui segni lasciati lungo le pareti dal lavoro dei lapicidi, potrebbe dirci di più non solo sugli strumenti impiegati ma anche sulle maestranze che vi lavorarono. Ci si auspica un ulteriore indagine archeologica del miqweh che potrebbe portare in luce parti ancora inesplorate; essa dovrebbe rigorosamente essere estesa alla chiesa di San Giovannello che architettonicamente ci riporta alla fase medievale, cosa che, cronologicamente non si accorda con la datazione recenziore del bagno ebraico di sua pertinenza. Avremmo un vuoto cronologico di parecchie centinaia di anni. Senza trarre conclusioni da argumenta ex silentio sarebbe comunque logico ipotizzare una ancora non rinvenuta fase bizantina della sinagoga escludendo forse, l’esistenza di due sinagoghe di fasi diverse; peraltro la presunta paleocristianità della chiesa di San Giovanni l’Apostolo, espressa dagli storici locali, potrebbe rientrare in quell’opera di rimozione storiografica che ha sempre caratterizzato le vicende degli ebrei e nascondere quindi la notizia della fase più antica della sinagoga. “Il bagno di purificazione nella religione ebraica rivestiva una funzione determinante ai fini della procreazione che, intesa come atto “divino”, richiedeva la donna libera dalle impurità derivanti dal ciclo mestruale” ( G. Bongiorno). Esso poteva essere effettuato ogni qualvolta lo si desiderasse e non solo dalle donne. “La donna deve bagnarsi completamente nuda con una immersione verticale, tenendo le braccia lontano dal corpo immergendo per qualche secondo completamente nell’acqua anche i capelli [..] Chi si converte all’ebraismo, se maschio, deve prima essere circonciso e poi immerso nel bagno, se donna deve solo praticare il rituale dell’immersione. Essa comporta un cambiamento di status e deve essere compiuta come atto comunitario che coinvolge i componenti di una corte rabbinica” (Scandagliato, Mulè). image Per un itinerario ebraico di Ortigia che idealmente rivisiti i due percorsi alla sinagoga, si può partire dal n° civico 52 (Casa Bianca) di via Alagona (platea vechia) osservare l’esistenza del ronco Palma (ex vanella porte parve meschite) chiamato così per l’esistenza nel medioevo di una palma, simbolo notoriamente caro agli ebrei, che era stata piantata in quello che doveva essere un cortile antistante l’ingresso dalla porta parva utilizzata, con ogni probabilità, dalle donne per andare in sinagoga; si percorra poi la ex ruga della meschita, oggi via Minniti e, attraversando la via dell’Arco (chiamata così a ricordo di un arco che fu demolito nel XVII secolo, previa autorizzazione del Senato, dal pittore siracusano Mario Minniti il quale aveva ivi acquistato una casa; l’arco era sicuramente uno degli elementi architettonici del quartiere ebraico) si perviene nell’attuale piazzetta del Precursore (platea parva) di fronte al prospetto della chiesa di San Giovanni, già moschea di Siracusa. In origine l’attuale piazzetta era molto più ridotta perché chiusa nella parte mediana da un alto muro, configurandosi come il cortile antistante l’ingresso principale. Imboccando la via della Giudecca (Platea judaica) si avranno sul lato ad Est l’ex ruga de li bagni, la vanella della porta parva e della porta magna che fiancheggiano i lati lunghi della chiesa di San Filippo l’Apostolo; imboccando la successiva stradetta, l’ex vanella dell’oliva adiacente ai siti del baglio e dell’ospedale ebraico si ritorni sulla via Alagona e, quindi, al punto di partenza per visitare quella stanza ipogeica straordinariamente carica di suggestioni che è il miqwèh. i è qui proposto un percorso che si conclude con la visita al bagno rituale, ritenendo che questo rappresenti il momento più atteso e più suggestivo ma, ovviamente, durante l’utilizzo reale era dal miqwè che iniziava il rituale di purificazione per concludersi in sinagoga.